Introduzione al mito di Aracne

ARACNE, dal greco aràchne («ragno»).


Fu la leggendaria fanciulla lidia di Colofone, figlia del tintore di porpora Idmone. Famosa per l’abilità nel tessere (le sue opere erano ammirate anche dalle ninfe e da Dioniso), osò sfidare Atena nella sua arte: Atena raffigurò nella sua tessitura la sentenza dei dodici dèi dell’Olimpo sul possesso dell’Attica, e poi esempi di mortali puniti per la superbia con cui avevano sfidato gli dèi; Aracne raffigurò invece gli amori degli dèi. Irritata dalla bellezza dell’arazzo tessuto da Aracne, Atena glielo sfondò con la conocchia. Aracne avrebbe voluto impiccarsi per il dolore, ma la dea la trasformò in un ragno, l’animale che tesse incessantemente la sua tela.
Aracne è una creatura di quell’ancestrale mondo dei miti, in cui il rapporto tra uomini e dèi era vissuto con serenità  e semplicità; una donna che si pone singolarmente in quell’esiguo numero di donne del mito che godono di una loro propria autonomia e valorizzazione, derivate da un’attività artigianale, da un lavoro in cui sono abili esecutrici. Non solo quindi virtù amorose, ma anche un ruolo attivo nella società.

Nei versi 14-33, Ovidio racconta di come Minerva, offesa nelle sue prerogative, decida di colpire la giovane Aracne, la cui fama di tessitrice e ricamatrice si è estesa a tutta la regione , benché la sua origine sociale sia assai modesta; Minerva si finge una vecchia e comincia a colloquiare con Aracne.

Ovidio, Metamorphoseon libri, VI, 14-33

[traduzione – i numeri corrispondono con buona approssimazione al verso latino]

Per vedere i suoi meravigliosi lavori, spesso (15)le ninfe del Timòlo lasciarono i loro vigneti, (16) le ninfe del Pactòlo lasciarono le loro acque. (17) E non soltanto faceva piacere vedere le vesti una volta finite,(18) ma anche vederle mentre venivano realizzate: un così grande eleganza accompagnava la sua arte,(19) sia che agglomerasse la lana grezza nelle prime matasse, (20) sia che domasse l’opera con le dita e con lungo gesto (21) sfilacciasse uno dopo l’altro i fiocchi somiglianti a nuvolette, (22) sia che con l’agile pollice facesse girare il liscio fuso, (23) sia che ricamasse con l’ago, si sarebbe potuto capire che fosse stata educata da Pallade. (24) Ma essa lo nega, e indispettita da una così grande maestra, (25) diceva: «Che gareggi con me! Se sarò vinta, non ci sarà nulla che io possa rifiutare». (26) Pallade si finge una vecchia, aggiunge sulle tempie una finta canizie e (27) finge deboli membra, che sostiene con un bastone. (28) Allora così esordì dicendo: «L’età più avanzata (29) non ha tutti aspetti da evitare: l’esperienza viene dagli anni tardi. (30) Non trascurare il mio consiglio: da te sia ricercata la massima (31) gloria di tessere la lana fra i mortali; (32) ma cedi alla dea e chiedi, sfrontata, (33) con supplice voce perdono per le tue parole; lei ti concederà il perdono se glielo chiedi».

 

Huius ut adspicerent opus admirabile, saepe   14
deseruere sui nymphae vineta Timoli,
deseruere suas nymphae Pactolides undas.
Nec factas solum vestes, spectare iuvabat
tum quoque, cum fierent: tantus decor adfuit arti, 18
sive rudem primos lanam glomerabat in orbes,
seu digitis subigebat opus repetitaque longo
vellera mollibat nebulas aequantia tractu,
sive levi teretem versabat pollice fusum,
seu pingebat acu; scires a Pallade doctam.  23
Quod tamen ipsa negat tantaque offensa magistra
‘certet’ ait ‘mecum: nihil est, quod victa recusem!’
Pallas anum simulat: falsosque in tempora canos
addit et infirmos, baculo quos sustinet, artus.
Tum sic orsa loqui ‘non omnia grandior aetas, 28
quae fugiamus, habet: seris venit usus ab annis.
Consilium ne sperne meum: tibi fama petatur
inter mortales faciendae maxima lanae;
cede deae veniamque tuis, temeraria, dictis
supplice voce roga: veniam dabit illa roganti.

 

Nei versi 34-52, il racconto continua nel suo progressivo crescere verso il culmine della tensione. Aracne si spinge oltre nella sua arroganza di giovane perfettamente cosciente della sua abilità, finché la dea si rivela; nonostante ciò la ragazza persiste nella sua tenace sfida a Minerva.

Ovidio, Metamorphoseon libri, VI, 34-54

[traduzione – i numeri corrispondono con buona approssimazione al verso latino]

Aracne la guarda con occhi torvi, lascia andare i fili già cominciati (35) e a stento trattenendo la mano e confessando l’ira nel volto, (36) con queste parole replicò a Pallade che ancora non si è manifestata: (37) «Ehi, svanita di mente, consumata dalla lunga vecchiaia qui vieni, (38) vivere troppo alla lunga rovina! (39)Se hai una nuora, se hai una figlia, le senta lei queste parole! (40) C’è a sufficienza perspicacia in me, e perché tu non (41) creda di aver fatto progressi ammonendomi, il mio parere è sempre lo stesso. (42) Perché non viene qui? Perché evita queste sfide?». (43) Allora la dea dice: «E’ venuta!», e rimuove l’aspetto di vecchia (44) e si rivela come Pallade. Si prostrano davanti alla divinità le ninfe (45) e le donne della Lidia; soltanto la ragazza non è spaventata. (46) Tuttavia arrossì e l’improvviso rossore (47) le dipinse suo malgrado il viso e poi si dileguò, (48) come l’aria è solita diventare di porpora non appena l’aurora compare (49) e dopo breve tempo impallidire dopo il sorgere del sole. (50) Insiste nel suo proposito, e per bramosia di una sciocca gloria (51) corre verso la propria rovina. E infatti la figlia di Giove non rifiuta, (52) e non l’ammonisce più, e nemmeno rinvia più la gara. (53) Nessun indugio: si sistemano entrambe in luoghi separati (54) e con esile filo tessono due trame.
(nei sei versi seguenti il poeta descrive le operazioni tecniche della tessitura)

Adspicit hanc torvis inceptaque fila relinquit 34
vixque manum retinens confessaque vultibus iram
talibus obscuram resecuta est Pallada dictis:
«mentis inops longaque venis confecta senecta,
et nimium vixisse diu nocet. Audiat istas,
si qua tibi nurus est, si qua est tibi filia, voces; 39
consilii satis est in me mihi, neve monendo
profecisse putes, eadem est sententia nobis.
Cur non ipsa venit? cur haec certamina vitat»?
Tum dea «venit!» ait formamque removit anilem
Palladaque exhibuit: venerantur numina nymphae 44
Mygdonidesque nurus; sola est non territa virgo,
sed tamen erubuit, subitusque invita notavit
ora rubor rursusque evanuit, ut solet aer
purpureus fieri, cum primum Aurora movetur,
et breve post tempus candescere solis ab ortu. 49
Perstat in incepto stolidaeque cupidine palmae
in sua fata ruit; neque enim Iove nata recusat
nec monet ulterius nec iam certamina differt.
haud mora, constituunt diversis partibus ambae
et gracili geminas intendunt stamine telas: 54

 

 

(versi 59-69) Comincia la descrizione delle due protagoniste, che con grande impegno si cimentano nelle loro opere di tessitura. Ciò che stanno creando è talmente splendido che rivaleggia in bellezza con le opere della natura.

 

Ovidio, Metamorphoseon libri, VI, 59-69

[traduzione – i numeri corrispondono con buona approssimazione al verso latino]

Entrambe lavorano alacremente, le vesti sono state legate ai seni, (60) muovono le braccia esperte, mentre l’ardore inganna la fatica. (61) E lì viene intessuta la porpora che ha sperimentato il bronzo di Tiro, (62) e sfumature sottili poco discernibili: (63) proprio come gli arcobaleni che, dopo la pioggia, e, rifratti i raggi solari, sono soliti (64) tingere un lungo tratto di cielo con un immenso arco; (65) e in questo frangente, benché risplendano mille diversi colori, (66) il passaggio stesso da uno all’altro, tuttavia, vanifica la vista che scruta attentamente: (67) fino ad un punto tale ciò che gli è vicino è simile, mentre la parte lontana è differente. (68) Lì flessibile oro viene intessuto nei fili (69) e sulla tela si rappresenta un soggetto antico.


utraque festinant cinctaeque ad pectora vestes
bracchia docta movent, studio fallente laborem.
60
illic et Tyrium quae purpura sensit aenum
texitur et tenues parvi discriminis umbrae;
qualis ab imbre solent percussis solibus arcus
inficere ingenti longum curvamine caelum;
in quo diversi niteant cum mille colores,            65
transitus ipse tamen spectantia lumina fallit:
usque adeo, quod tangit, idem est; tamen ultima distant.
illic et lentum filis inmittitur aurum
et vetus in tela deducitur argumentum.

Valete !

 

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